Una recente ordinanza della I° sezione civile della Corte di Cassazione, la n. 20269 del 23 giugno 2022, offre lo spunto per una panoramica sulla tutela del marchio patronimico, cioè del segno distintivo di un brand che coincide con il nome dello stilista.

Il caso qui affrontato prende le mosse da un’azione esercitata da uno stilista che, dopo aver regolarmente registrato il proprio nome quale marchio, l’ha ceduto ad altra azienda produttrice di una linea di prodotti simile alla sua per tipologia e qualità, lamentandone poi la decadenza sull’uso esclusivo del marchio per ingannevolezza sopravvenuta, per un peggioramento della qualità dei prodotti contraddistinti dal marchio, ai sensi dell’art. 14, 2° comma, lett. a) del Codice della Proprietà Intellettuale.

La Corte, nel respingere il ricorso, fissa innanzi tutto un interessante principio, secondo il quale non vi è decadenza quando di fatto l’ingannevolezza non ha una connotazione oggettiva, ossia lo standard qualitativo dei prodotti contraddistinti da quel marchio patronimico non sia apprezzabile dal pubblico dei consumatori in sé e per sé, ma in relazione al modo e al contesto di utilizzazione da parte del cessionario; dunque, il peggioramento qualitativo del prodotto non comporta alcuna decadenza, soprattutto se non espressamente prevista tale precisa circostanza nel contratto di cessione.

E ciò impone un’altra riflessione sull’importanza di un’accurata regolamentazione contrattuale relativa all’utilizzo del patronimico che abbia acquisito valenza di brand e sia al contempo riconducibile ad un designer (titolare o meno dell’impresa che sfrutta questo brand).

Infatti, se nel mondo della moda è piuttosto comune realizzare sotto il proprio nome creazioni destinate a diventare un prodotto commerciale, la registrazione del proprio nome come marchio si inserisce a tutti gli effetti in un asset commerciale, e la cessione comporta conseguenze non trascurabili, soprattutto in relazione all’uso che in futuro può fare il cedente del proprio nome inteso in senso commerciale.

Quindi, fatto salvo un uso strettamente privatistico, il cui diritto non può mai ovviamente essere violato, il nome dello stilista registrato come marchio, quando viene ceduto nell’ambito di un’operazione commerciale, diventa utilizzabile dallo stilista stesso solo in maniera descrittiva, pena un’inibitoria da parte della azienda cessionaria, diventata appunto titolare di quel patronimico registrato e legittimata perciò ad utilizzarlo in maniera esclusiva per fini commerciali.

Emblematico il caso “Fiorucci” su cui è intervenuta la Corte di Cassazione con sentenza n. 10826, del 25 maggio 2016.

Ecco perché la contrattualistica deve essere molto articolata e lungimirante, affinché lo stilista, per un migliore e più vantaggioso sfruttamento del creato brand, possa riservarsi l’uso del proprio nome anche per future finalità suscettibili di valutazione economica che non vengano impedite dalla cessione del marchio.